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PROGETTO ARTAUD

in costruzione

Antonin Artaud è stato un commediografo, attore teatrale e cinematografico (tra l’altro, nella Giovanna d’Arco di Dreyer e nel Napoleon di Gance), poeta e regista teatrale francese che ha influenzato tutto il Teatro ed il pensiero filosofico del ‘900. Come noto, subì diversi e prolungati internamenti manicomiali.
Ne Il teatro e il suo doppio espresse la sua ammirazione verso le forme orientali di teatro, in particolare quello balinese. La fisicità ritualizzata e codificata della danza balinese gli ispirò le teorie esposte nei due manifesti del Teatro della Crudeltà, intesa come rigore e stimolo al sacrificio di qualunque elemento non concordante al fine della rappresentazione. Artaud riteneva che il testo avesse finito con l’esercitare una tirannia sullo spettacolo ed in sua vece spingeva per un teatro totale, che comprendesse e mettesse sullo stesso piano tutte le forme di linguaggio, fondendo gesto, movimento, suono e parola. “Se il segno dell’epoca è la confusione, io vedo alla base di tale confusione una rottura tra le cose e le parole, le idee, i segni che le rappresentano… Il teatro, che non risiede in niente di specifico, ma si serve di tutti i linguaggi (gesti, suoni, parole, fuoco, grida) si ritrova esattamente al punto in cui lo spirito ha bisogno di un linguaggio per manifestarsi (…) Il Teatro della Crudeltà è stato ideato per restaurare il teatro di una concezione passionale e convulsiva della realtà ed è in questo senso di rigore violento e di estrema condensazione di elementi scenici che la crudeltà su cui questo si basa deve essere compresa. Questa crudeltà può essere così identificata con un tipo di severa purezza morale che non teme di pagare alla vita il prezzo che le deve”.
Pensieri e parole di una attualità sconvolgente che hanno spinto Ascoli a ritornare ad Artaud, nel cui segno, con un non dimenticato Van Gogh, nacque nel 1998 l’avventura dei Chille a San Salvi.

Io che vivo di passione, tête à tête itinerante con Antonin Artaud è stato presentato a San Salvi come in altri luoghi estremi, soprattutto ex-spazi manicomiali: Napoli, Aversa, Milano e soprattutto Trieste, nell’ex ospedale psichiatrico di San Giovanni, dove Franco Basaglia inventò la legge 180.

In “Io che vivo di passione”, Claudio Ascoli lavora sull’ultimo periodo creativo di Artaud, quello che comunemente viene definito il “dopo Rodez”, collegandosi in qualche modo con questo internamento manicomiale. Fu in quegli anni che Artaud scrisse, designò, elaborò pittigramma, realizzò una trasmissione radiofonica, recitò senza sosta alla ricerca di un possibile linguaggio e di quello che definì il Nuovo Teatro della Crudeltà.
Memorabile, e tragica, la serata al Vieux Colombier, intitolata “Artaud le momo, tête à tête di Antonin Artaud” dove il termine tête à tête sta ad indicare contemporaneamente incontro e scontro con il pubblico: in essa il poeta finì ben presto con l’interrompersi, gettare in aria un centinaio di fogli ed andare via dal Teatro urlando: “Mi è parso che le cose che avevo da dire su quel punto non potevano, assolutamente più dirsi a parole, ci sarebbe voluto uno scontro, lo scontro vero, mentre mi sono visto ancora una volta in una sala di teatro, davanti a persone che avevano pagato il loro posto per assistere a uno spettacolo, e giunto al momento di iniziare, lo spettacolo non mi è sembrato possibile. E’ tutto. Avrei dovuto dire al pubblico: voi siete di troppo qui, e io sono di troppo davanti a voi a questo posto, come una specie di oratore ibrido; per strada, davanti a una barricata non sarei certo di troppo e d’altronde poco o molto siete tutti colpevoli dell’incrostazione delle istituzioni attuali avendo tutti qualcosa da proteggere, conservare, o salvare”.
Ascoli parte proprio da questo momento crudele per costruire un suo tête à tête con Artaud: un “fantastico” viaggio che inizia nella sala teatrale per invadere poi lo spazio circostante.
E così, attraverso il suo Corpo, Ascoli dà vita ad un incontro/scontro tra parole, poesie, glossolalie, lettere, pittogrammi, la stessa voce di Artaud e il luogo.
In un momento in cui tutto scivola e scompare senza lasciare tracce “Io che vivo” non può che generare un salutare senso di spaesamento, uno stato di positiva apprensione verso una intensificazione percettiva: d’improvviso le parole, le azioni lo spazio assumono un senso, ovunque la possibilità di una scoperta, il timore di un incontro indesiderato… mentre “rinasce un discorso che ascolta il muggito, il lamento, il soffio che i luoghi abbandonati articolano”.

Lo spettacolo nel 2010 ha visto l’amichevole partecipazione di Paolo Tranchina e Filippo Trovato, che in video agiscono la conversazione tra lo psichiatra Jacques Latrémolière, che ebbe in cura Artaud a Rodez, e lo studioso artaudiano Sylvère Lotringer.