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CHILLE’S CORNER: DUE INCONTRI SUL TEATRO (E SU QUANTO SIA NECESSARIO) CON FRANCO ACQUAVIVA, MATTEO PECORINI, ALESSIO MARTINOLI PONZONI E MARCO DELL’OMO


di Camilla Castellani

Al Chille’s Corner questa settimana si è parlato di teatro. Ai due estremi, come poli opposti eppur vicini, si incontrano in due diversi incontri quattro uomini con differenti percorsi, ma che nonostante questo intessono la trama dei Chille de la balanza: sono Franco Acquaviva, Alessio Martinoli Ponzoni, Matteo Pecorini e Marco Dell’Omo. C’è chi frequenta la compagnia da anni, e chi da pochissimo. Tutti però, sono appassionati di teatro, e di vita. Si confrontano sul contemporaneo, divisi e uniti nell’emergenza Covid.
Franco vive e lavora al Teatro delle Selve, una residenza artistica dispersa nel bosco e vicino a un fiume, in Piemonte. Alessio, Matteo e Marco sono invece attori fiorentini che abitano in città.

Alessio ci racconta della sua esperienza nell’RSA “Il Giglio”, dove ha un contratto come animatore e regista di una compagnia teatrale. Il suo sogno, dice, era quello di creare un posto a Firenze dove tutti potessero ritrovare Shakespeare ogni anno. Così ha ribattezzato il luogo dove lavora “Residenze Socio Shakespeariane Assistite”, RSSA. In questi giorni, nonostante le misure di distanziamento sociale, ha il permesso di entrare insieme a pochi altri e sempre seguendo le disposizioni mediche.

«Come vivere? Come ripartire? È sempre il come che ci viene richiesto per andare avanti. Per farlo occorre un bagaglio da portarsi dietro. Questo bagaglio io credo che si possa ritrovare in Shakespeare. Il passo è breve, in un certo senso. “Noi siamo la stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”: così io mi arrenderei alla vita, al respirare, all’essere qui…»
Martinoli parla con la timidezza di un bambino: per lui, insieme agli anziani, i bambini sono coloro che si mostrano come sono realmente e che fanno vedere ciò che stanno vivendo.
«Dobbiamo riflettere sulle scelte della nostra società, essa ci dice di ascoltare i nonni e di stare con loro… Poi, se uno sta male a cinquant’anni o anche a trenta, finisce isolato in una RSA. Se questa è la prospettiva della nostra società, mi dico che forse qualche errorino lo abbiamo fatto. Alle volte cerchiamo di dare un valore economico all’umanità, ma la verità è che non ce l’ha.»

Alessio si confronta con Marco Dell’Omo che è uno studente di fisica e un attore. Con il suo gruppo porta avanti un progetto di slam poetry, prima nei locali fiorentini, oggi sulla rete. Marco, che forse anche per la sua formazione ha una visione molto pragmatica sull’epidemia, non manca di esprimere una forte sensibilità: «Talvolta – ci dice – la paura è funzionale ad adottare certi comportamenti precauzionali che senza di essa non si verificherebbero. Il tempo che stiamo vivendo è qualcosa di non ordinario: dobbiamo imparare a difenderci dalla critica che la testa ci fa se non siamo continuamente produttivi. Ci viene insegnato un senso di colpa per il tempo non capitalizzato, invece è molto più bello investire in un “soldo umano” che ognuno di noi può avere riscoprendo un ozio creativo. Sarebbe colpevole dimenticarlo.»

Franco Acquaviva è un attore e poeta pugliese, adottato dal Piemonte da oltre vent’anni. È stato a San Salvi con spettacoli su Marco Cavallo e su Dino Campana, e a settembre dovrebbe tornare con la sua nuova produzione.
In questo momento è fermo, ma continua la sua ricerca precisando: «Star fermi implica in sé un senso di costrizione, qualcosa di imposto e che viene da fuori. Al contrario l’essere fermi coinvolge una ricerca di equilibrio verticale e funzionale a livello artistico.»

Si riferisce ad un testo di Giuliano Scabia quando parla del momento in cui l’animale nel bosco, davanti al cacciatore ha come unica possibilità quella di restare fermo per restare vivo.
«Mi è piaciuta molto quest’immagine – dice – l’ho collegata al lavoro dell’attore e del rapporto che ha oggi nei confronti della ricerca. L’attore è qualcuno che si deve muovere, che deve parlare, che deve agire, ma è anche qualcuno che può immergersi in una dimensione interiore e di ricerca. In questo modo essa può potenziarsi e contribuire così a rompere quegli automatismi e quei cliché che talvolta nascono da una frequentazione continua e abituale con il pubblico, e che possono portare l’attore a modellarsi in base alla domanda richiesta. Astraendosi, l’attore ha la possibilità di tornare alle fonti originarie del proprio lavoro e della sua espressività.»

Davanti al forte sovraffollamento degli spettacoli teatrali su internet, una domanda sorge spontanea: l’attore può fare teatro anche senza pubblico? Si interroga Acquaviva e riflette sul mestiere e su ciò che vi è oltre il velo dello spettacolo: la ricerca, il training, la scrittura.
Sostiene, a proposito dello streaming: «il teatro è molto diverso dalla sua immagine: un corpo non puoi soltanto vederlo, devi avvertire ciò che trasmette, anche a livello energetico.»

Matteo Pecorini, attore giovane e già fondamentale componente della compagnia Chille de la balanza, ha alle spalle un percorso differente. Parla sinceramente quando dice: «Mi sento totalmente incapace di praticare quella che è una messa a nudo del proprio lavoro e del proprio sé davanti all’obiettivo di una videocamera. Siamo abituati a pensare al teatro come al solo momento dello spettacolo, senza prendere in considerazione tutto il processo. Esso è solo una piccola parte di un percorso molto più ampio: lo studio, l’approfondimento, il tempo della sedimentazione e della maturazione di un lavoro, tutto questo va a definire il mestiere dell’attore.
Franco citava Barba nel parlare del momento dello spettacolo come della presenza: è presente l’attore che dà un dispendio di sé, della sua energia; e allo stesso tempo lo spettatore non è soltanto colui che guarda: egli è colui che partecipa mettendo a disposizione la sua attenzione, è il Pubblico.» Così Matteo fa notare l’imprescindibile reciprocità fra attore e spettatore.

«Nello streaming – continua – il rapporto con la collettività viene meno semplicemente perché, da casa, una persona può spegnere il monitor e andarsene. Nel teatro invece anche lo spettatore a cui non piace uno spettacolo si assume la responsabilità di prendere ed alzarsi: questo è un atto pubblico, è un’azione che implica comunque il rapporto con l’altro. Il teatro su questo si basa: su un erotismo che non può prescindere da un rapporto di corpi. Il teatro è quanto più lontano ci possa essere dalla pornografia, che si basa invece sull’assenza di un contatto fisico reale.
Per me nel teatro si esprime un atto di seduzione e di amore nei confronti dello spettatore. Forse su questo sono molto fiducioso: finita questa ‘nottata’, ci sarà una forte richiesta di tornare al corpo.»

Tutto questo riporta me, che scrivo queste righe, al “Teatro, comunque.” di Via Port’Alba 30 a Napoli. O forse sarebbe più opportuno dire: all’idea che ho di esso, in quanto è un luogo che io ho potuto solo immaginare, ma che tuttavia ho l’impressione di vivere ogni giorno. Nacquero lì, pochi giorni dopo l’epidemia di Colera del 1973, coloro che oggi vengono chiamati i “Chille”.
Si dissero allora, in giorni difficili come quelli che viviamo oggi, che qualunque cosa fosse accaduta il Teatro sarebbe stato sempre, e comunque, necessario.

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